Dedicata a tutti i “Don Chisciotte” che non hanno smesso di credere alla possibilità di raccontare storie attraverso l’arte: questa mostra è un’immersione nella Weltanschauung di due artisti visionari e irriverenti, i quali, “nonostante l’età” - come sono usi a ripetere - , propongono un lavoro fresco da un punto di vista formale, nonché tematiche attualissime e in costante dialogo tra loro.
L’età non è l’unico collante che tiene insieme da tanti anni Corrado Bonomi e Gianni Cella. Non lo è nemmeno il carattere, così simile quanto a umiltà, auto-ironia, un certo amore per la vita appartata e solitaria e una ritrosia nei confronti del sistema omogeneizzante e tritacarne.
Gianni Cella e Corrado Bonomi fanno proprie le demistificazioni messe al centro del dibattito post moderno, senza per questo rinunciare alla costruzione del senso: se l’epoca delle “grandi narrazioni” è conclusa, le “piccole narrazioni” sono potenti anticorpi al rischio di autoreferenzialità e alla visione dell’artista come l’eletto «in una torre d’Avorio».
L’arte si riappropria così di uno spazio di sperimentazione - quello incarnato e auspicato da Bruno Munari, convinto dell’importanza del gioco e del gioco artistico – che diventa spazio di rivoluzione, senza proclami e concetti massificati, bensì attraverso l’esercizio di un pensiero critico mediante canali decisamente inconsueti.
Chi lo direbbe che un totem in vetroresina, alto due metri e venti, dal titolo Personalità multiple, possa rappresentare la materializzazione figurale e fisica dei propri incubi sociali e umani, se per incubi intendiamo un pinocchio a tre occhi, o una bocca semiaperta, o un volto alieno e sorridente?
E i mostri parlano con i mostri, anche Corrado Bonomi ha suoi: a 50 anni dall’allunaggio, ne ritroviamo la storia – o meglio, le storie –che sono state costruite intorno a questo evento così importante per l’immaginario collettivo.
Ma come ci riescono? Come riescono a costruire stratificazioni tanto profonde producendo opere apparentemente semplici, quasi lapalissiane?
Il cortocircuito sta qua: dove il fruitore poco accorto ci vede inutile ridondanza, il fruitore scevro da giudizi affrettati, ci vede l’uso della didascalia e della tautologia come rottura semiotica dell’assoluta aderenza tra significato e significante, rievocando il monito magrittiano “Questa pipa non è una pipa”.
L’opera d’arte non è mai davvero in possesso dell’artista ma come un figlio, nasce per mezzo di lui e appartiene a coloro che vi entrano in relazione, assumendo di volta in volta sensi e significati nuovi.